È necessario un time out nel calcio dopo giorni di caos seguito dall’annuncio, poi rientrato, della nascita di una Superlega da parte di 12 top club europei. La loro provocazione è: il calcio è uno spettacolo prodotto da società di business con dei costi enormi e che muovono un altrettanto enorme giro d’affari, quindi i più intraprendenti è giusto che si gestiscano un torneo e i relativi incassi. Fine del calcio come uno sport meritocratico, con un sistema piramidale di promozioni e retrocessioni.
Il calcio però è da 30 anni che va in questa direzione, con un’accelerazione negli ultimi 20. Abbiamo visto nascere la Premier League inglese con i soldi della pay-tv, abbiamo visto vietare l’uso delle mani ai portieri per i retropassaggi, abbiamo visto un Euro 92 con le maglie personalizzate e un mondiale 94 negli Usa con gli arbitri non più in nero, abbiamo visto cambiare la Coppa dei Campioni e la Coppa Uefa mentre spariva la Coppa delle Coppe, abbiamo visto cadere le frontiere con la libera circolazione di calciatori, abbiamo visto l’Italia al top in Europa e nel mondo e poi flop in tante e troppe altre recenti manifestazioni.
Parola d’ordine: più spettacolo, più coinvolgimento dei tifosi, più merchandising. Più oggetti – a partire dall’amata maglia – da vendere ai fan. Attenzione, perché in Italia questa strada era stata tentata alla fine degli anni 70 da qualche imprenditore visionario come Pouchain, ma proprio la nomenklatura del calcio e la stampa avevano bocciato il progetto senza appello al grido “non si specula sulla tradizione e non si spremono i tifosi come se fossero dei consumatori qualsiasi”.
Poi sono arrivati gli anni 90: per chi è appassionato di maglie il cambio di paradigma è stato rivoluzionario. Siamo passati da decenni con le novità soprattutto in ambito tecnico dei tessuti (dalla flanella al cotone, dal cotone al sintetico, dal nylon al traspirante) e delle rifiniture (maniche e orli) a un’esplosione di colori, pattern e abbinamenti. Siamo passati dalle maglie numerate dall’1 all’11 per i giocatori in campo alla numerazione personalizzata con tanto di nome del calciatore sulle spalle. Nuovi idoli come negli sport Usa, dove però da sempre la numerazione è libera dallo 00 al 99.
Nel calcio i numeri sono un’invenzione arrivata ben 80 anni dopo la nascita del primo club in Inghilterra. E inizialmente erano dall’1 all’11 per una squadra e dal 12 al 23 per l’altra. Però nel tempo proprio i numeri, come nel rugby, sono serviti a identificare il ruolo in campo. E tramandare un sogno: quello di indossare e vincere, un giorno, con la maglia e il numero del proprio idolo quando si era bambini. Proprio come Totti da ragazzino nel 1991 che a bordo campo vedeva il suo idolo Giannini in campo: stesso numero 10 e stessa fascia da capitano.
Il calcio è soprattutto una cultura e i tifosi ne sono parte integrante con il loro bagaglio identitario, di storia e tradizione che attraversa le generazioni. Non è un prodotto di intrattenimento da consumare con i riti ordinari che conosciamo per qualsiasi altra industria. Se il calcio serve anche a vendere è perché ha dei valori fondanti come cultura e non come bene di consumo.
La tradizione fa parte dell’emozione che trasmette il calcio e i sogni devono essere aperti a tutti: vincere uno scudetto da outsider, un campionato europeo da ripescati o indossare un giorno la maglia numero 10 del Napoli. Perché quella divisa fa parte della storia e della tradizione del calcio, del club, di Diego Armando Maradona per un periodo molto felice e dei tifosi. Se tra loro ci fosse un giovanissimo fuoriclasse, perché non può sognare di indossare quella maglia numero 10?
Non sono un nostalgico e non sono contrario alle novità nel mondo del calcio. Però mi piace ragionare con i piedi piantati nella cultura di questo sport, che è sempre stato inclusivo. Fino a quando non ha iniziato a coltivare l’esclusività. La maglia “del fuoriclasse” è diventata più importante della “maglia della squadra”: per la Juve si contano a spanne quante maglie numero 7 di Cristiano Ronaldo si possono vendere ai tifosi e non quanto il campione si riconosca in quella divisa con quei colori.
Faccio una proposta: torniamo a giocare i campionati nazionali dalla prima all’ultima categoria con la numerazione fissa dall’1 all’11 e senza il nome dei giocatori sulla schiena. Se vogliamo mettiamoci il nome del club in rappresentanza di tutti quanti si riconoscono in quei colori. Anche un mito come Cruijff a Barcellona aveva rinunciato al numero 14 che vestiva, ante litteram, come sua cifra personale.
Facciamo sognare i bambini tifosi, che un giorno potranno indossare la maglia con il numero del loro campione. Lasciamo aperta la possibilità di meritare un giorno lo stesso palcoscenico e lo stesso costume di scena come si fa per gli artisti. E teniamo la numerazione fissa per i campionati nazionali come la Serie A lasciando quella personalizzata nelle Coppe per i club e le nazionali. Un ulteriore scatto meritocratico da conquistare sul campo.
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