Divise Italia alle Olimpiadi

Team Italia, le divise olimpiche da Londra 1948 a Tokyo 2021

Le divise olimpiche delle squadre nazionali cambiano ogni edizione e ormai sono un oggetto del desiderio da parte degli sportivi, che cercano di avere un pezzo di abbigliamento da collezione. Ma le tute con i colori e i loghi dei vari paesi in gara raccontano una storia molto più lunga, che riguarda l’evoluzione dei costumi, delle mode e dei tessuti. Ci concentriamo sul team Italia, che ai prossimi Giochi di Tokyo 2020 (posticipati al 2021) sarà ancora vestita con il brand EA7.

Partiamo con le prime edizioni dei Giochi olimpici moderni iniziati nel 1896 ad Atene. Le foto in bianco e nero richiamano i pionieri dello sport, che ci sembrano vestiti tutti allo stesso modo e con una prevalenza di maglie o canotte bianche e pantaloni, più o meno lunghi, al ginocchio di colore nero.

Una prima ricostruzione dell’abbigliamento olimpico è proposta dal film Momenti di Gloria del 1982 con la costumista italiana Milena Canonero, premio Oscar, alle prese con le divise da rappresentanza e da gara del team britannico a Parigi nel 1924. Si vedono personalizzazioni come gli inserimenti dei colori delle bandiere nazionali per distinguere gli atleti su un abbigliamento da gara prevalentemente bianco.

Per l’Italia invece sappiamo che le prime apparizioni ai Giochi olimpici sono con divise di colore bianco e solo dall’edizione del 1932 a Los Angeles il colore della delegazione diventa per tutti l’azzurro. Il viaggio alla scoperta delle divise ufficiali del team Italia inizia da però ancora Londra, per l’edizione 1948.

Ottavio Missoni, Londra 1948

Londra 1948: Venjulia

«Abbiamo fornito le tute per gli atleti italiani che nel 1948 hanno partecipato alle Olimpiadi di Londra. È stato il nostro esordio», ricordava a Il Piccolo di Trieste Livio Fabiani, morto nel 2012 a 88 anni, fondatore del maglificio Venjulia con suo cugino Giorgio Oberweger (nella foto di apertura), olimpionico nel lancio del disco e poi per 25 anni commissario tecnico della nazionale di atletica leggera, e Ottavio Missoni.

Iniziamo questo viaggio nel tempo con un doveroso omaggio ai pionieri dello sport e dell’imprenditoria del secondo dopoguerra. Tra i ricordi della Venjulia c’è l’invenzione dell’azzurro cosiddetto “olimpic”, quello che compare sulle attuali maglie delle nazionali italiane. Il precedente azzurro era molto meno intenso. «Un celestino chiaro che dopo lavato diventava grigiastro – ha raccontato ancora Fabiani –. La seconda invenzione è stata quella di costruire un nuovo filato di lana all’interno del quale era inserito un fiocco di nylon. Rendeva le tute elastiche, attillate, confortevoli, stabilissime nel colore. È stata la nostra fortuna». Una tuta di maglia, a costa inglese, ben scalata con la scritta “Italia” sul petto divisa in due dalla zip.

Le maglie e le tute del Venjulia sono state indossate dai campioni olimpici, mondiali e nazionali di tanti sport. Erano quelle indossate anche dagli Azzurri in altre Olimpiadi comprese quelle di Roma nel 1960. Il maglificio ha chiuso per fallimento nell’agosto 2005.

Facciamo una parentesi storica per spiegare l’evoluzione dello sport olimpico e del rapporto tra atleti e abbigliamento tecnico. Alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 cade praticamente il mito del dilettantismo e l’azienda tedesca adidas firma i primi contratti con gli atleti. Questo si è reso necessario per evitare i pagamenti sottobanco agli atleti per indossare soprattutto le scarpe per gareggiare e piano piano si è esteso anche ai costumi e le cuffie da bagno fino alle tute.

Ma ancora non basta perché i fratelli Dassler a capo di Puma e adidas con i rispettivi figli giocano una partita molto scorretta per l’endorsment degli atleti. Horst Dassler riesce nel 1965 a corrompere dei funzionari del comitato organizzatore e avere le autorizzazioni per aprire un negozio monomarca all’interno del villaggio olimpico dietro la promessa di produrre le scarpe in un’azienda sussidiaria in Messico.

Non contento corrompe anche i doganieri per bloccare un container di scarpe Puma, che sarà sdoganato solo dietro il pagamento dei dazi penalizzando il competitor. Questi fatti sono raccolti e raccontati nel libri “Pitch invasion” di Barbara Smit (Penguin Books). La rivalità tra i membri della famiglia Dassler è davanti agli occhi di tutti e dai Giochi del 1972 a Monaco di Baviera viene concesso di esporre il marchio dei produttori di abbigliamento e calzature. Ma c’è un problema: ogni atleta è libero di scegliere le scarpe che preferisce e non può essere obbligato dalla sua federazione o comitato olimpico nazionale. Così si arriva al 1976 con una rivoluzione di portata storica: i contratti per vestire gli atleti delle squadre olimpiche che così sono obbligati a gareggiare e andare sul podio con il marchio dello sponsor tecnico in vista.

Fioretto a squadre Italia, Montreal 1976

Montreal 1976: Sergio Tacchini

Facciamo un salto temporale e da Londra 1948 arriviamo ai Giochi olimpici di Montreal nel 1976. Il primo sponsor che veste gli Azzurri del Coni è Sergio Tacchini. Non sorprende perché ai tempi era un logo ben conosciuto dagli appassionati di tennis e basket. Nel 1968 il tennis aveva abbandonato l’era degli amateurs per entrate in quella open con relativi ingaggi da parte degli sponsor tecnici. L’ex tennista e imprenditore Sergio Tacchini apre l’attività nel 1966 a Bellinzago Novarese e capisce come unire un filato molto morbido e performante con scelte cromatiche e stilistiche al passo con i tempi. L’esempio è la tuta azzurra a Montreal 1976 con l’inserimento di pannelli colorati in verde e rosso ai fianchi e la scritta Italia sull’orlo inferiore sinistro della giacca con zip.

Damilano, Simeoni e Mennea, Mosca 1980

Mosca 1980: Ellesse

I Giochi olimpici del boicottaggio statunitense in piena Guerra fredda mettono in forse anche la partecipazione del team Italia. Alla fine il Coni, a parziale supporto del blocco Atlantico contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, decide di gareggiare solo gli atleti italiani non appartenenti alle squadre sportive militari e solo sotto la bandiera olimpica del CIO. Niente tricolore e inno di Mameli per i medagliati italiani. In questa edizione lo sponsor tecnico del Coni è ancora un brand italiano tra i più gettonati del momento: Ellesse, azienda fondata a Perugia nel 1959 dall’imprenditore Leonardo Servadio. Tennis, sci e lo streetwear che inizia a diventare una moda molto diffusa nel quotidiano. Sulla tuta azzurra spiccano i loghi del brand sul colletto che rappresentano la sezione di un pallone da basket in rosso e arancione.

Sara Simeoni, Los Angeles 1984

Los Angeles 1984: Fila

Eccoci ai Giochi olimpici statunitensi del contro-boicottaggio sovietico. Si tratta anche dell’edizione dove si ricorre, senza più nasconderlo, ai soldi degli sponsor per organizzare la macchina dell’evento. Per il team Italia c’è ancora un nuovo sponsor che fornisce l’abbigliamento al Coni: la Fila. Anche in questo caso uno dei brand più di successo a livello mondiale e che affianca lo sport nazionale in una vetrina di prestigio. L’azienda tessile nasce a Biella nel 1911 grazie a Giansevero Fila e ai suoi tre fratelli. Nel 1926 esce la prima linea di intimo e maglieria donna, uomo e bambino e solo nel 1973 cresce l’attenzione per lo sport con la sperimentazione di tessuti elastici, a costina e senza cuciture per creare abbigliamento sportivo. Il testimonial più famoso? Il tennista svedese Björn Borg. Nel 1978 lo scalatore Reinhold Messner, vestito da Fila con indumenti tecnici per la montagna, diventa il primo uomo a scalare l’Everest senza l’utilizzo di ossigeno extra. Attenzione perché l’azienda tornare a vestire il team Italia, non più ai Giochi estivi ma a quelli invernali del 1994 a Lillerhammer.

Agostino, Carmine, Giuseppe Abbagnale e Giuseppe Di Capua, Seul 1988

Seul 1988: Trussardi Sport

Gli ultimi Giochi olimpici dei blocchi Usa e Urss si celebrano in Corea del Sud e finalmente si torna a gareggiare senza più boicottaggi o assenze. Il team Italia dopo la pioggia di medaglie a Los Angeles ha molte ambizioni anche se gli atleti sul podio ovviamente saranno inferiori come numero rispetto l’edizione precedente. E qui c’è il quarto sponsor tecnico del Coni ed è ancora un marchio italiano: Trussardi con la neonata linea Sport. Si tratta di un battesimo sotto i riflettori dell’olimpismo visto che la linea arriverà nei negozi solo un anno dopo. E dopo una sostanziale proposta dell’azzurro come unico colore c’è la novità dell’inserimento del tricolore sulla giacca della tuta (sempre azzurra). Verde sulle spalle, bianco sul petto e poi il rosso. La storia del marchio della famiglia Trussardi ha radici lontane: l’impresa nasce nel 1910, quando Dante Trussardi, famoso in tutto il mondo per la tecnica sopraffina con cui lavora i guanti, fonda a Bergamo la sua azienda. Nel 1970 il figlio Nicola prende in mano le redini dell’azienda e nel 1983 e 1984 nascono le collezioni Donna e Uomo fino alla linea Action e Sport.

Vincenzo Maenza, Barcellona 1992

Barcellona 1992: Paul & Shark

I Giochi post Guerra fredda si celebrano in Spagna a Barcellona. Un’edizione fortemente voluta dal presidente del Cio, lo spagnolo e barcelonì Juan Antonio Samaranch. Per il team Italia c’è l’ennesimo nuovo accordo commerciale del Cio che in questa occasione premia ancora un brand italiano, ma con un nome internazionale: Paul & Shark. L’azienda è del Varesotto e produce abbigliamento per la vela, con il suo pezzo forte rappresentato dal maglione idrorepellente venduto in un tubo di latta. Le tute sono in materiale sintetico multistrato e con l’utilizzo di un azzurro molto chiaro (forse un azzurro mare cristallino come riferimento al core business dell’azienda). Una storia comunque interessante quella del Maglificio Dacò, fondato nel 1921, poi diventato Dama e dai primi anni 70 concentrato nella moda sportiva con un riferimento all’universo dello yachting. Il nome inglese nasce per caso durante un viaggio nel Maine (Usa) con una vecchia vela da lavoro utilizzata sui clipper verso la fine del XVIII secolo con la scritta Paul & Shark.

Atlanta 1996: Sergio Tacchini

Il ritorno di Sergio Tacchini sulle tute del team Italia è ai Giochi di Atlanta, quelli del centenario dalla prima edizione di Atene del 1896. Sono passati 20 anni da Montreal 1976, ma lo stile minimal del brand è ancora elegante ed efficace. L’azzurro chiaro si abbina con il navy e sorprende l’uso della doppia manica e l’uso dei pantaloni con i bottoni sui lati che riprendono lo stile del basket, dove il marchio è reduce da sponsorizzazioni importanti a partire da quella dell’Olimpia Milano sul finire degli anni 80. Una divisa al passo con la moda dei tempi che prevedeva taglie oversize e dal gusto street style da playground.

Vezzali, Bianchedi e Trillini, Atlanta 2000

Sydney 2000: Playlife

I Giochi nel nuovo mondo per iniziare un nuovo millennio: le Olimpiadi si spostano in Australia e il team Italia è vestito da un nuovo brand in tutti i sensi: si tratta del marchio Playlife, linea di sportswear della famiglia Benetton. Ci sono delle curiosità e la prima riguarda la Formula Uno, dove la scuderia Benetton ha ribattezzato con il nome Playlife la fornitura di motori acquistata da Renault. Altra curiosità è il business dietro al marchio con il giovane Alessandro Benetton che, forse con una buona idea, voleva rivoluzionare la vendita della moda sportswear (cosa riuscita poi a H&M e Uniqlo, ma non a Playlife). Per quanto riguarda le tute degli Azzurri c’è da segnalare la prima idea di un ritorno a una tonalità e un design vintage: c’è la scritta Italia sul petto, un azzurro sbiadito e la fettuccia bianca sulle spalle e maniche. Una clamorosa sobrietà che cattura lo spirito dei tempi con i brand sportivi che iniziano a guardare negli archivi in cerca di qualcosa capace di far scattare un ricordo e un’emozione tra i tifosi.

Setterosa pallanuoto, Atene 2004

Atene 2004: asics

I Giochi tornano in Grecia ad Atene nell’edizione delle Olimpiadi figlia delle paure dopo gli attentati terroristici alle Torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001. Per il team Italia ci sono tre grosse novità: per la prima volta lo sponsor del Coni è straniero, c’è un nuovo stemma del Coni con lo scudetto tricolore in stile astratto e per la prima volta non c’è l’azzurro, ma il bianco, a rappresentare l’Italia sul podio. Si pensa a un omaggio ai padroni di casa della Grecia, come si usa fare anche al Tour de France con la maglia gialla, che viene usata solo dal leader della classifica generale togliendo il colore da qualsiasi altra divisa in gara. Il boss italiano di Asics è Franco Arese, ex atleta e allenatore di atletica leggera, che riesce ad assicurarsi anche la fornitura dell’abbigliamento di atleti, commissari e volontari dei Giochi invernali 2006 a Torino. Alla fine l’impressione degli atleti italiani sul podio ad Atene è quella di sportivi vestiti con una tuta elegante con la giacca bianca e i pantaloni azzurri. Niente di più.

Granbassi, Vezzali, Salvatori e Trillini, Pechino 2008

Pechino 2008: Freddy

I Giochi estivi arrivano in Cina con una delle edizioni più sfarzose della storia. Per l’occasione il team Italia torna nelle mani di un’azienda italiana dello sportswear con Freddy. Non c’è traccia dell’azzurro perché il pezzo forte è un giubotto con tasconi di color argento abbinato a pantaloni bianchi dove sul passante della cintura c’è l’inserimento di un tricolore. Insomma una tuta non-tuta con una polo azzurra abbinata che spesso non si nota perché indossata sotto la giacca. C’è da segnalare che per l’occasione, oltre ai filati di tessuti tecnici brevettati dello sponsor tecnico, si ricorre a un abbinamento cromatico e la scritta Italia realizzata dall’artista Arnaldo Pomodoro piazzata sulla parte dorsale della giacca. Per tornare allo sponsor Freddy si tratta di un’azienda ligure fondata da Carlo Freddi nel 1976 e che ha visto il boom grazie dell’aerobica e del fitness: inizia l’avventura nelle palestre con il nome La Danza per poi diventare Freddy (come il cognome del fondatore). Lo stesso fornitore firma anche le divise per i Giochi invernali 2010 a Vancouver con un giaccone azzurro metallizzato.

Nazionale italiana pallavolo, Rio 2016

Londra 2012, Rio 2016 e Tokyo 2021: EA7

Il sodalizio più longevo della storia olimpica italiana vede Giorgio Armani superare Sergio Tacchini (anche se i Giochi estivi di Tokyo sono stati rinviati di un anno). Con il marchio sportivo EA7 il noto stilista italiano firma le divise del team Italia iniziando l’avventura a Londra 2012. Il primo colpo di scena è l’abbandono del colore azzurro per un blu navy che caratterizza le collezioni di moda dello stilista. Il secondo è l’inserimento delle strofe dell’inno di Mameli all’interno della giacca. Il debutto londinese è molto sobrio ed elegante, mentre a Rio nel 2016 c’è il colpo di scena: sulla giacca della tuta blu scuro campeggia un grande 7 in bianco. Per Tokyo 2020 invece ci sarà una grafica che riprende il circolo rosso della bandiera giapponese declinato con il tricolore che richiama con la disposizione dei colori la forma del monte Fuji. Ma veniamo alla vera curiosità legata al marchio Emporio Armani 7 (EA7). Giorgio Armani crea il marchio nel 2004, con l’intenzione di avere un brand di sportswear non solo per il tempo libero, ma anche per chi lo pratica. La scelta del 7 perché la prima collezione è stata realizzata in collaborazione con il calciatore ucraino Andriy Shevchenko, che giocava nel Milan con la maglia numero 7.

Team Italia, Tokyo 2020

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Commenti

3 risposte a “Team Italia, le divise olimpiche da Londra 1948 a Tokyo 2021”

  1. Avatar Daniele Costantini
    Daniele Costantini

    Il top rimangono per me le divise Playlife di Sydney 2000, perfette nel rielaborare i semplici, iconici canoni stilistici del Secondo dopoguerra. Per me, inarrivabili. Ed è interessante notare come in quell’estate del 2000, curiosamente, nello sport italiano il vintage la fece assolutamente da padrone: oltre ai succitati Giochi, infatti, a Euro 2000 gli Azzurri portarono al debutto un instant-classic quali furono le Kombat di Kappa, un qualcosa nettamente in controtendenza rispetto alla moda extralarge all’epoca imperante nel calcio 😉

    Tornando alle Olimpiadi, trovo assolutamente degni di menzione i lavori di Sergio Tacchini per Montreal 1976, molto “tennistici” ma dopo oltre quarant’anni ancora incredibilmente attuali, così come la “coraggiosa” scelta dell’argento Freddy a Pechino 2008, quest’ultimo un azzardo riuscito. Mentre continuo ad avere pareri contrastanti circa l’ultima éra EA7: apprezzo molto la scelta del blue navy che ha conferito un’eleganza innata al tutto… però a livello grafico le trovo delle divise abbastanza scialbe, quando va bene (Londra 2012), o perfino pacchiane, quando va male (Rio 2016 e, vedremo, Tokyo 2020/1).

    L’unica prova che boccio senza appello, è quello di Los Angeles 1984 marchiata Fila: mi spiace, ma quel “bandierone” lo vedo più adatto a un piumino Ciesse addosso a qualche paninaro fuori tempo massimo, che non a una divisa nazionale quale dovrebbe essere… qui vedo quasi gli estremi per vilipendio alla bandiera! 😀

  2. Grazie per il commento che ha colto in pieno il viaggio nel tempo proposto con le divise olimpiche! È interessante notare come tutto il discorso giri intorno al concetto di “azzurro”: dal 1948 la tonalità savoia (che scolorisce in fretta e diventa grigia) sparisce per l’azzurro olympic (la Venjulia con lo stesso colore farà poi anche le maglie della Lazio di fine anni 60), poi viene rielaborata con l’evoluzione dei dettagli della moda del tempo. Fino al 2000 che condivido essere l’anno del back to basic dopo l’euforia creativa e cromatica degli anni 90. Quanto all’EA7 preferisco far passare qualche anno e agire da storico: adesso sono troppo immerso e coinvolto per un giudizio!

  3. Avatar Domenico Maltauro
    Domenico Maltauro

    La divisa olimpica italiana è brutta. Davvero non adeguata. Anche la divisa della squadra di calcio agli europei non riuscita. Non all altezza del grande standard italiano.

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