Dalla storia dei Chicago Bulls nella Nba emerge una notizia curiosa sul logo del team di basket Nba: il disegnatore dell’iconica testa di toro rossa e nera non è mai stato pagato per il suo lavoro. Dan Wessel nel 1966 ha ricevuto come ricompensa un semplice cambio merce: biglietti omaggio per le partite casalinghe della squadra. Sorpresi? Anche io, ma se guardiamo indietro nel tempo ci sono molte coincidenze.
Prima degli Anni 80 del secolo scorso giravano pochi soldi nel basket pro americano. Bob Wages, che negli Anni 70 ha ridisegnato lo stemma degli Atlanta Hawks, quello passato alla storia come il “pac-man logo”, non ha visto un centesimo per il suo lavoro creativo. O come la studentessa universitaria Carolyn Davidson, che nel 1971 ha inventato il logo di Nike dietro un pagamento di soli 35 dollari (più o meno 200 dollari al cambio attuale).
Torniamo a Chicago, andiamo con ordine e partiamo proprio dallo stemma: i Bulls sono l’unica squadra della Nba a non averlo mai cambiato o modificato. Secondo il sito Grantland.com il motivo è nella perfezione del disegno, nei tratti netti e puliti e nei colori rosso e nero. Per questo motivo l’assistant editor del sito Zach Lowe lo ha messo al primo posto nella classifica dei 30 stemmi della lega nel 2016.
Chicago Bulls, un team con una precisa brand identity alla quale si è allineata anche la brand image negli Anni 90 quando Michael Jordan e Nike hanno cambiato per sempre le regole del basket proprio con la maglia dei Bulls: le scarpe nere e rosse come i colori della squadra (e inizialmente proibite dalla Nba), i pantaloncini sotto il ginocchio come la Michigan University della Ncaa, la terza divisa nera da alternare a quelle rossa e bianca. Una squadra dunque al centro dell’evoluzione dell’abbigliamento e della rivoluzione del marketing. Con anche 6 titoli Nba in bacheca, una delle strisce di vittorie e dominio che hanno monopolizzato la decade, tifosi in tutto il mondo e un campione che ha scritto la storia del basket come Air Jordan.
Adesso andiamo proprio al 1966, quando la Nba apre a un’espansione dei team e Chicago si garantisce una franchigia grazie al proprietario Dick Klein. Il riferimento ai “tori” è voluto e legato alla grande tradizione di Chicago nel settore della macellazione bovina. Quale nome usare? Matadors o Toreadors? Anche in questo caso entra in campo la tradizione cittadina: le squadre degli altri sport professionistici hanno un nome corto come i Bears del football, i Cubs e Sox del baseball e i (Black) Hawks dell’hockey.
Mentre Klein passeggia nervosamente avanti e indietro nel salotto di casa sotto lo sguardo della moglie e dei 3 figli, il più piccolo apostrofa il padre dicendo: “That’s a bunch of bull” (tradotto: sono tutte “cavolate”). Ecco, era arrivata l’ispirazione e da quel giorno i Bulls sono i baskettari di Chicago. Fatta la franchigia, trovato il nome si passa al simbolo da depositare nei fascicoli della Lega per procedere alla produzione dell’abbigliamento e di tutto il resto.
I soldi iniziano a essere pochi e bisogna trovare una soluzione economica, Anzi, ancora meglio: il logo non deve costare un solo cent. Il proprietario della nuova squadra Nba bussa alla porta di una vecchia conoscenza, con la quale ha condiviso l’esperienza di coach di una squadra di un piccola lega di basket locale. Questa persona è Dean Wessel, che di professione da l’illustratore di pubblicità. Un artista più che un designer industriale, ma bisogna accontentarsi.
La prima bozza è la testa del toro disegnata con il tratto nero e abbinata ai colori viola e bianco, quelli dell’università Northwestern frequentata da Klein. Come proposta alternativa Wessel propone il rosso abbinato al nero come i colori della squadra ai tempi dell’high school.
Klein torna da Wessel con la seconda proposta e chiede di aggiungere il rosso anche le punte delle corna, che dovevano essere come sporche di sangue con l’obiettivo di far apparire team e giocatori come grintosi e pronti alla carica.
Ecco la storia di come è nato lo stemma dei Chicago Bulls. Come scritto in precedenza nessun compenso è stato pagato a Wessel e nessun diritto d’autore gli è mai stato riconosciuto. In cambio del lavoro ha ricevuto biglietti per le partite casalinghe dei Bulls. Solo un cambio merce, dunque. Wessel è morto a 84 anni il 16 agosto del 2004. La moglie ricorda la vicenda al Chicago Tribune.
“Erano altri tempi e non c’erano molti soldi nel basket, tanto che Dean aveva predetto a Klein di ritenersi fortunato se 2.000 spettatori venivano alle partite in casa”
Katherine Wessel
L’autore dello stemma più classico, iconico e bello della Nba ha fatto un favore personale al suo amico e non credeva al successo della squadra dei Chicago Bulls. Del resto negli anni precedenti il basket non aveva mai scaldato i cuori dei chicagoans nelle gelide giornate invernali: le franchigie dei Packers e degli Stags erano miseramente fallite e si respirava molto scetticismo nell’aria nel 1966.
Ma c’è un’altra versione sulla nascita dello stemma dei Bulls e vede coinvolto un team di designer. Non si sa se coordinati da Wessel, ma la citazione è sulla quarta di copertina del libro “Blood and Horns” di Roland Lazenby. Klein introduce così la nascita del logo:
Volevo che il toro fosse un vero toro in una corrida. Lo sapete è grande, nero, con le corna lunghe, gli occhi rossi e cattivo. Volevo un vero sguardo da toro cattivo. Le prime proposte erano di animali a figura intera, il toro con la testa giù… quella cosa lì. Dissi “voglio una faccia, datemi una faccia”. E mi diedero una faccia che sembrava davvero ben fatta.
Dick Klein
Continuando il suo racconto si arriva all’inserimento dei dettagli rossi che caratterizzano la testa del toro:
Adesso, tutto quello che dobbiamo fare è colorare di rosso gli occhi. Voglio il sangue sul suo naso. O le narici rosse. E il sangue sulle corna. E lo fecero. Fecero un bel lavoro. Quello divenne il nostro simbolo.
Dick Klein
La caparbietà del fondatore dei Bulls è stata ripagata da un logo che ha dato carattere e ispirazione alla città di Chicago. Anche se lui, da buon imprenditore con un obiettivo da raggiungere, non ha mai derogato alla sua richiesta di non pagare l’amico Wessel. O il gruppo di designer che faceva capo a Wessel. Che infatti, anche decenni dopo, in piena epopea degli anni novanta, non si vide mai riconoscere un centesimo per la sua opera. Wessel non è stato buon profeta pronosticando un fallimento della franchigia che non si è mai avverato. Ma ci ha lasciato in cambio un capolavoro capace di farci sognare e cavalcato per grandi cambiamenti, grazie a una squadra capeggiata da Michael Jordan e Phil Jackson, capace di riscrivere la storia del basket mondiale.
(prima pubblicazione 29 aprile 2016, aggiornamento 9 aprile 2020)
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