“Sai perché queste maglie erano belle? Perché a differenza di quelle di oggi molto elastiche e aderenti queste erano di cotone spesso, pesante. E si indossavano comode. Così potevi berti anche un paio di birre in più e nessuno si accorgeva della pancia!”. Francois Pienaar, 51 anni sudafricano, ex giocatore di rugby e capitano degli Springboks nel 1995. La battuta su una maglia originale della Rugby World Cup di 23 anni fa prodotta da Cotton Traders a margine di un evento all’Arena di Milano organizzato lunedì 9 aprile da Investec Asset Management.
Pienaar oltre alla stampa ha incontrato anche tanti piccoli rugbisti. Amatore è una definizione che torna spesso nei suoi discorsi. Lui non era un professionista. “Noi ci alzavamo alle 4 del mattino per andare a fare un po’ di corsa, di allenamento. Poi andavamo a lavorare per pagare il mutuo e la sera ti allenavi e nel weekend giocavi davanti a 70.000 persone. Era come una droga. Non ci importava non venire pagati, avevamo altre responsabilità nella vita: lavoravamo, c’era chi era sposato, chi gestiva un’azienda. Rimpiango di aver vissuto tardi il professionismo? No, le emozioni con la maglia della nazionale sono le stesse, che tu sia dilettante o professionista”. Due lauree in legge e adesso un’attività nel campo dei diritti tv legati allo sport per lo storico capitano del Sudafrica.
Pienaar ha ricevuto dalle mani di Nelson Mandela la Coppa del Mondo dopo la finale vinta ai supplementari contro la Nuova Zelanda allo stadio di Johannesburg il 24 giugno 1995. Il trionfo di una nazione uscita dal buio dell’apartheid, in cui per la prima volta le distanze tra bianchi e neri si annullarono per sostenere l’esaltante cammino degli Springboks. La storia della loro amicizia è raccontata nel film Invictus di Clint Eastwood.
Signor Pienaar, che emozione è stata vedere Mandela entrare nello spogliatoio prima della finale con la sua maglia?
È stato incredibile. Prima di tutto non lo sapevamo, è stata davvero una sorpresa. Prima di una partita così importante come la finale del campionato mondiale di rugby c’è molta tensione, emozione e concentrazione. Ogni giocatore rimane coni suoi pensieri, ripensa alle strategie, immagina come sarà scendere in campo e giocare. In quel momento i giocatori sono pronti e la loro concentrazione è tutta focalizzata sulla partita. Abbiamo sentito i muri dello spogliatoio tremare. Non sapevamo che un Boing stava sorvolando lo stadio con un messaggio benaugurale per gli Springboks. Passato il momento di curiosità abbiamo sentito bussare alla porta. Poi visto Nelson Mandela entrare. Aveva indosso la nostra maglia con lo springbok. Per noi è stato un momento davvero emozionante. E non ha detto molto. Disse solo: “Avete reso orgogliosa questa nazionale, buona fortuna”. Girandosi per uscire ho visto che aveva sulla schiena il mio numero, il 6, quello della mia maglia. Ero così colpito e commosso che non sono riuscito a cantare l’inno prima della partita. Davvero un momento incredibile.
Lo springbok non è più posizionato sul cuore, sulla maglia al suo posto la protea: cosa ne pensa di questa scelta?
Ci sono state un sacco di discussioni politiche per togliere del tutto lo springbok dalla maglia. La gente voleva un simbolo unico per rappresentare il Sudafrica nello sport e la scelta è stata la protea, che è il fiore nazionale. Ma se guardiamo la maglia degli Springboks nel corso dei decenni a partire dal secolo scorso l’emblema è cambiato nelle sue fattezze, la posizione è cambiata. Siamo una democrazia giovane, non mi disturba averlo spostato dal cuore perché penso che così siamo tutti a nostro agio. Nelson Mandela a suo tempo l’aveva difeso perché in quel momento doveva essere un simbolo di costruzione dopo anni di separazione. Adesso siamo cresciuti e abbiamo potuto affrontare l’argomento e prendere una decisione come quella di non avere più lo springbok sul cuore.
Lei e Mandela insieme con la stessa maglia: una delle foto più iconiche dello sport. C’è qualcosa che avrebbe voluto fare in quel momento, ma non ha fatto?
Avrei voluto abbracciarlo. In quel momento avrei voluto abbracciarlo, ma non l’ho fatto. Quando sono salito sul podio per ricevere la Coppa del Mondo dalle mani di Nelson Mandela lui mi ha detto: “Grazie Francois per quello che ha fatto per il Sudafrica”. Gli ho risposto: “No, signor Mandela. Grazie a lei per quello che ha fatto per il Sudafrica”. Ci siamo detti esattamente la stessa cosa. Nello stesso momento. A quel punto avrei voluto abbracciarlo, ma non l’ho fatto. Mi sono bloccato. Poi ho abbracciato Mandela più volte nella mia vita: al mio matrimonio e quando è stato padrino di battesimo di mio figlio. Ma quel giorno no, avrei voluto ma forse non potuto farlo. Era un momento solenne con un protocollo con altre mani da stringere.
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