Beppe Bergomi e il Mundial 1982: così nasce la leggenda dello “zio”.
Giuseppe Bergomi nasce a Milano il 22 dicembre 1963. Debutta giovanissimo nell’Inter e diventa “lo zio” del calcio italiano. Al termine di una partita Giampiero Marini, uno dei veterani della squadra, chiese a Bergomi quanti anni avesse e alla risposta “17”, sbottò: “Caspita sembri mio zio, con quei baffi poi!”.
Chi meglio di Bergomi, allora, per aprire la nuova rubrica del venerdì del blog “Ama la Maglia”? Un venerdì con i baffi: questo il titolo che ho scelto spulciando tra un po’ di foto datate (ma non molto) e che riguardano i Mondiali visto che siamo molto vicini al fischio d’inizio del torneo in Sudafrica.
Lo zio ha un curriculum di tutto rispetto: terzino nell’Inter per 758 partite condite da 28 gol, con cui debutta il 22 Febbraio 1981 in Inter-Como 2-1. Chiude la carriera nel 1999 dopo 519 presenze e 23 gol in serie A tutte in nerazzurro. In Nazionale totalizza 81 presenze e 6 gol, vincendo il Mondiale di Spagna 1982 (all’età di soli 18 anni come Pelè) e disputando quattro mondiali (Spagna 1982, Messico 1986, Italia 1990, Francia 1998).
Bergomi è stato il primo difensore nella storia della nazionale italiana a segnare una doppietta (Italia-Grecia 2-0, 8 ottobre 1986). Chiusa la carriera da calciatore ha preso il patentino di allenatore. E’ anche un talent di Sky Calcio in tandem con il telecronista Fabio Caressa. Commenterà le partite degli Azzurri in Sudafrica come già nel 2006 in Germania.
L’ho recentemente intervistato per il mensile “Eurosat” de Il Sole 24Ore (sarà in edicola ai primi di giugno). Parlando della sua attività di opinionista per la pay tv, gli ho chiesto che emozione è stata vincere il Mondiale in campo e poi rivincerlo commentando la finale Italia-Francia di Berlino.
«Sono sensazioni diverse. Quando sei protagonista in campo è l’emozione più grande per un calciatore – mi ha detto Bergomi -. Io ero giovane e abbastanza incosciente. Sono stato aiutato da un gruppo di ragazzi eccezionale come quello del 1982. Da telecronista capisco Fabio Caressa perché per lui era il massimo traguardo professionale. Io mi sono fatto trascinare dall’emozione del momento. Ma Fabio lo sa: non sono emozioni paragonabili».
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